Carlo
 

Carlo nacque in Italia nel 1894, era il maggiore di quattro fratelli e una sorella; viveva in una casa con l'intera famiglia, composta da: i nonni, i loro tre figli (uno dei quali era il padre di Carlo) e le rispettive mogli e figli, tutti mezzadri in una piccola fattoria. I figli delle tre coppie, undici in totale, crebbero come fratelli e sorelle, condividendo il poco che avevano: in effetti non c'era mai nulla in quantità sufficiente. Carlo, mio padre, ha sofferto privazioni persino maggiori come giovane soldato di fanteria nella Prima guerra mondiale, per quattro anni, infatti, combatté nelle regioni alpine a nord est dell'Italia. Quando ritornò a casa dalla guerra, la famiglia decise che, essendo il più grande tra i fratelli, avrebbe dovuto intraprendere il viaggio in America con la speranza di migliorare il tenore di vita di tutta la sua famiglia; così lasciò il suo paese, Osteria Nuova, nel luglio del 1920 e mia madre Maria lo raggiunse l'anno successivo. Misero da parte tutto ciò che guadagnarono i primi anni. Prima di comprare una casa per loro a San Francisco inviarono denaro nel vecchio paese affinché la famiglia di Carlo potesse coltivare un terreno di proprietà. Vidi questi otto acri di terreno di peschi e viti quando andai in Italia la prima volta, nel 1966.

 

Papà era morto da sette anni. Uno dei suoi fratelli mi mostrò la fattoria mentre mi raccontava i suoi ricordi, a volte con le lacrime agli occhi, e mi disse: "Tuo padre ha mantenuto la sua promessa nei nostri confronti", queste furono parole che udii spesso da zii e cugini. Mio padre era stato il loro sostegno. Lui e la mamma acquistarono la loro prima casa nel 1926, cinque anni dopo il matrimonio. Nel 1929 la sua attività di intonacatore stava andando a gonfie vele ma poi la Grande Depressione lo costrinse a dichiarare bancarotta. Fu l'amico Gigi - lo stesso Luigi Sanchietti che aveva anticipato a mio padre i soldi per emigrare - che li aiutò finanziariamente perché non perdessero la casa. Anche in tempi particolarmente duri, negli anni trenta, papa diceva a me e alla mamma "La cosa più importante è il cibo" così, con o senza lavoro, a casa nostra ci fu sempre buon cibo. Quello che non potevamo acquistare nei negozi di Mission Street, lo ottenevamo grazie allo spirito d'iniziativa di mio padre: avevamo le uova dalle galline che tenevamo nell'aia sul retro, in cui allevavamo anche piccoli piccioni e conigli per le cene domenicali. Non mi affezionai mai a questi animali, né li guardai mai se non con occhi di chi è consapevole che il loro destino sarebbe stato sui nostri piatti.

 

Papà coltivava un piccolo appezzamento di terreno sabbioso dietro casa. Il clima era fresco e umido ma l'orto ci forniva tutte le erbe aromatiche di cui la mamma necessitava in cucina: l'insalata verde, le bietole, e i fagiolini venivano piantati nella zona più esposta al sole. Nei suoi spostamenti di lavoro o alla ricerca di un impiego, papa andava per campi a cogliere la senape selvatica e le foglie di tarassaco e a volte trovava alberi da frutto che sembravano non essere di nessuno. Per tutta la mia infanzia, dalla mia nascita nel 1925 alla mia adolescenza, fino ai primi anni quaranta, mio padre fece l'intonacatore. Spesso, durante la Grande depressione, non ebbe un lavoro fisso. Girava tutta San Francisco passando di casa in casa per lasciare i suoi bigliettini da visita sotto le porte; a volte portava anche me affinché lo aiutassi. Questa fatica era sproporzionata rispetto al minimo di lavoro che riusciva a ottenere, eppure non si arrese mai e si prese sempre cura di noi, in qualunque modo gli fosse possibile. Passava ore in coda all'ufficio di previdenza per la disoccupazione, ma il suo inglese era elementare e un giorno, dopo uno di questi colloqui, il camioncino della fondazione assistenziale per l'indennizzo dei disoccupati si fermò davanti casa nostra per consegnarci un pacco di provviste che settimanalmente lo stato consegnava ai poveri. Grande fu l'imbarazzo dei miei genitori di fronte ad un evento che di certo non avrebbero potuto tenere segreto ai vicini: percorso tutto l'isolato il camioncino si fermò solo davanti a casa nostra.

 

Ricordo perfettamente quanto mi apparvero strani i cibi contenuti nel pacco: maiale in scatola con fagioli, dolci appiccicosi, zuppe, tutto con etichette genetiche, con scritte nere su carta bianca che sembravano appena stampate. Noi non eravamo soliti consumare cibi in scatola, eccetto la salsa di pomodoro e la frutta che la mamma preparava e poi conservava nei barattoli. C'era un tipo di pancetta salata e affumicata che sembrava un cibo totalmente diverso dalle fette di maiale appena tagliate che utilizzava la mamma. La scatola conteneva anche pacchi di riso, zucchero e farina e dei buoni che avremmo potuto cambiare con carne fresca, se non fosse stato per il fatto che mia madre provasse imbarazzo alla sola idea di consegnare i buoni al nostro macellaio. Ricevemmo solo due o tre di queste consegne, poiché mio padre vi mise fine. Papà era socievole e curioso e familiarizzava con persone di qualunque età e ceto sociale, limitato solo dalla scarsa padronanza della lingua inglese. "Ho esplorato" diceva, quando in verità intendeva che aveva scoperto cose nuove, e ancora il prezzo di una casa che era vendesi, un buon posto dove andare a caccia di funghi in autunno, e come riparare un problema idraulico. La sua indole lo rendeva estremamente aperto rispetto al mondo esterno, cioè quello al di fuori dalla ristretta cerchia di conoscenze che condivideva con mia madre.

 

Quando la mamma criticava qualcuno per delle piccole trasgressioni o per il solo fatto di gestire la casa in modo diverso, mio padre le diceva: "Non siamo tutti uguali in questo mondo, Maria. Ognuno vede le cose in modo diverso". In ogni caso, in merito agli argomenti più importanti la pensavano esattamente allo stesso modo: il valore del lavoro svolto con il massimo dell'impegno, la parsimonia, l'igiene e la mia educazione. Che lavorasse o meno, mio padre passava fuori l'intera giornata; all'ora di cena sentivamo il rumore del camion Model-A di papà salire la collina del nostro isolato e fermarsi davanti casa. Entrava dal seminterrato, camminando vicino all'auto di famiglia, ai contenitori per il vino dove in autunno si metteva a fermentare l'uva, e ai ripiani di cemento dove venivano conservate le botti di vino. In fondo al seminterrato c'erano la lavatrice e i catini, una stufa a gas adibita ai lavori che avrebbero imbrattato troppo la casa, come spiumare i polli o preparare le conserve e, infine, un piccolo ripostiglio per i barattoli confezionati dalla mamma e dei ganci sulla parete per appendere gli abiti da lavoro. Si lavava nei catini e poi indossava abiti e scarpe puliti prima di salire in casa. Questo rito non gli veniva imposto dalla mamma, piuttosto era lui che non sopportava l'idea di essere sporco per il grande rispetto che aveva per noi e per la pulizia che la mamma manteneva sempre in casa. Ogni domenica mattina, mentre la mamma preparava il pasto di mezzogiorno (sempre pasta seguita da carne e contorni), papa chiedeva "Avete bisogno del bagno?" e poi stava chiuso lì per un sacco di tempo, ricomparendo ripulito, sbarbato e pettinato.

 

In quelle giornate indossava i suoi pantaloni migliori e una camicia bianca e rimaneva pulito e ben vestito per tutto il giorno. A volte andava a piedi fino alla panetteria Cherry di Mission Street e ci riportava dei pasticcini francesi, oppure incontrava gli uomini del vicinato davanti casa e insieme facevano il giro delle cantine di ciascuno per assaggiare i vini e darsi consigli. Durante tutti i nostri pasti, eccetto la colazione, c'erano sempre due bottiglie in tavola: una di vino rosso e una d'acqua. La mamma riempiva il suo bicchiere con metà acqua e metà vino, io, anche da bambina, potevo bere l'acqua leggermente colorata da un cucchiaio o due di vino, solo papa beva vino liscio, ma lo vidi ubriaco solo una volta in tutta la mia vita, a una festa di Capodanno durante la quale aveva bevuto troppi whisky e mi aveva spaventato, non perché si fosse comportato male (era divertente e pazzerello) ma solo perché stranamente perse il controllo di se stesso. In certe circostanze sapeva anche essere cattivo. La sua calma abituale, la sua condotta sempre razionale, il suo senso dell'umorismo, il suo modo metodico e composto di assolvere ai propri doveri, potevano lasciare spazio alla frustrazione e a scatti d'ira. La mamma mi raccontava alcuni episodi: "Gli ho detto che mi dispiaceva che avessimo comprato i battiscopa bianchi per il bagno, che avrei voluto cambiarli e ordinarli rosa come le mattonelle" lui le rispose perentoriamente "Vanno bene così come sono e non cambieremo proprio nulla". In un giorno in cui già troppe cose erano andate storte, bastava un nonnulla a irritarlo.

 

Quando ebbe montato il battiscopa bianco, mia madre gli disse che non le andava bene, allora lui le gridò: "Va a fare i tuoi affari'''. A volte se la prendeva anche con se stesso per qualunque inezia, come quando cadeva un attrezzo da uno scaffale o quando doveva interrompere un lavoro per un piccolo incidente. Fioccavano, allora, parolacce in entrambe le lingue: "Figlio di puttana, porco cane' e anche bestemmie, se era davvero furioso. Ciò che papà riteneva più blasfemo delle imprecazioni era parlare a sproposito dei morti "Lascia stare i morti' diceva se qualcuno spendeva parole non troppo lusinghiere nei confronti di un defunto. Non parlava mai di una persona morta, senza far seguire o precedere il nome da buonanima, il nome proprio e questo appellativo erano pronunciati come un'unica parola: " Quella buon anima di Giovanni" o "Mia mamma buon anima". A volte mi piaceva il senso di protezione di mio padre, a volte lo detestavo. Era molto severo e si sentì in diritto di esercitare autorità su di me finché mi sposai, a ventidue anni. Da che ricordo, ho sempre saputo di dovergli ubbidire poiché la disobbedienza lo faceva infuriare, a volte dimostrava la sua ira persino sbattendo il pugno sul tavolo. A cena mangiavo correttamente e con le giuste maniere, con i loro amici ero educata e a scuola facevo tutto da sola, nel miglior modo possibile, malgrado i mie genitori non avessero tempo e una cultura tale da motivarmi e incoraggiarmi. Quando crebbi, vissi periodi estremamente turbolenti perché mio padre voleva imporre le regole di un patriarca italiano a una figlia americana tanto silenziosa quanto ribelle.

 

Per anni ci fu impossibile parlare la stessa lingua ma non erano le parole ad essere incomprensibili, piuttosto i nostri mondi erano incompatibili. Ci scontrammo meno dopo il mio matrimonio quando dovette rinunciare ad essere il mio tutore. Ogni volta che in futuro ricordammo quei brutti momenti di incomprensione, era solito dire "dimentica" intendendo "dimenticatene": sia io sia il mio papa non eravamo per nulla inclini a serbare rancore. Alla fine degli anni trenta, la situazione economica dei miei genitori migliorò considerevolmente, entrambi avevano un lavoro stabile, mio padre come intonacatore e mia madre cuciva di professione. Quando iniziò la guerra mio padre valutò un'opportunità di guadagno maggiore rispetto ai suoi salari settimanali: decise di diventare agricoltore, proprio come lo era stato in gioventù in Italia. Affittò un appezzamento di terreno non lontano da casa, lungo la costa. Ci vedemmo poco in quegli anni: io avevo un impiego statale e lavoravo sei giorni a settimana come impiegata in un ufficiò istituito in quegli anni di guerra e mio padre usciva di casa alle cinque di mattina e rientrava quando era già buio. Nel 1947, quando lui aveva 53 anni e la mamma 48, avevano risparmiato sufficiente denaro da poter acquistare una casa a Menlo Park, dove avrebbero vissuto per il resto della loro vita.

 

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