La casa di Brazil Avenue
 
 

La casa di Brazil Avenue era ad Excelsior, un quartiere di vecchie costruzioni nella periferia sud della città, dove vivevano prevalentemente persone appartenenti alla classe operaia, soprattutto molti italiani che se n'erano andati da North Beach. I miei genitori vivevano in una casa di proprietà (non in affitto) che aveva persino un garage nel seminterrato e un piccolo giardino sul retro. Ad Excelsior c'era un'atmosfera familiare: alcuni erano già loro amici e nuove amicizie nacquero con altri italiani provenienti da tutte le regioni d'Italia. Nei negozi gestiti da commessi che parlavano italiano si poteva acquistare di tutto. Esisteva un rapporto di confidenza anche con la Chiesa di Corpus Christi, il cui prete era italiano. La parrocchia era stata fondata dai padri Salesiani della chiesa dei Santi Pietro e Paolo che, probabilmente si resero conto del notevole numero di famiglie che si erano trasferite da North Beach a Excelsior. Fu presso la Chiesa di Corpus Christi che iniziò la mia educazione cattolica, qui ricevetti la Santa Comunione e la Cresima.

La casa di Brazil Avenue

 
 

Andare in chiesa non rappresentava una priorità per la nostra famiglia. Le priorità di mamma erano le faccende domestiche che doveva sbrigare il fine settimana, quando non lavorava e preparare il pasto più importante: il pranzo della domenica, che doveva essere in tavola a mezzogiorno. Si preoccupò sempre che io ricevessi i sacramenti, malgrado la scarsa partecipazione alle lezioni di catechismo; potevo frequentarle, infatti, solo quando c'era qualcuno che mi potesse accompagnare, poiché aveva paura che attraversassi Mission Street da sola. Non ci fu mai dubbio che fossimo una famiglia cattolica, in ogni camera c'erano immagini sacre ed un crocifisso. Nei giorni in cui ricorreva la commemorazione dei nostri cari, la mamma accendeva delle candele intorno a una statuetta in gesso di Gesù posta all'interno di una teca di vetro, custodito nella credenza, II nome informale del nostro quartiere era Little Europe poiché era formato prevalentemente da immigrati europei e le vie avevano i nomi di città europee: Madrid, Edinburgo, Napoli, Vienna... Durante le passeggiate serali con mamma e papà, in cui andavamo a far visita agli amici, ho imparato a memoria i nomi delle nove strade parallele a Mission Street che si percorrono per arrivare sulla collina di McLaren Park. Solitamente papà andava alla taverna di Mission Street, dove gli uomini s'incontravano per giocare a carte o a bocce. Spesso io e mamma andavamo a trovare la sua amica Peppina, che viveva in via Mosca.

 

A volte la mamma mi portava al teatro Granada, di solito alla "serata del piatto", quando per trentacinque centesimi vedevamo un doppio spettacolo e lei riceveva un bonus: un pezzo di porcellana di poco valore. Quando moriva qualcuno del vicinato, ci recavamo presso l'impresa di pompe funebri Valente-Marini per le consuete veglie; papà veniva solo se il defunto era stato suo amico. Non ho un ricordo preciso della prima volta che vidi una persona morta perché la veglia era un rito che ha sempre fatto parte della nostra vita, fin da piccoli; era uno degli impegni sociali a cui partecipavano abitualmente anche i bambini e a me non disturbava affatto. La maggior parte delle sere la mamma era troppo stanca per uscire; tornava a casa dal lavoro (all'epoca cuciva in un'azienda tessile) dopo essersi fermata velocemente dal macellaio, al mercato della frutta e all'alimentari di Mission Street, portando le buste pesanti in salita per due isolati. Vivevo dirimpetto alla casa di Mary e sua figlia si prendeva cura di me ma appena tornava uno dei mie genitori mi chiamava dalla finestra della cucina che si affacciava sui cortili e io capivo che dovevo rientrare. In inverno, quando faceva buio, controllavo dalla finestra di Mary se nella nostra cucina le luci fossero accese, così non occorreva che mi chiamassero; avevo sempre un forte desiderio di tornare a casa, dove non mi sentivo un'ospite.

 

La mamma iniziava a preparare subito la cena. Fare la spesa e cucinare erano mansioni quotidiane poiché, diversamente da alcuni vicini, non avevamo un frigo. In cucina avevamo un lungo ripostiglio con ripiani reticolati e un pavimento che consentiva all'aria fresca di San Francisco di circolare. Qui tenevamo le scorte di cibi che si potevano conservare e gli avanzi che sarebbero stati consumati il giorno successivo. Durante le quasi due ore di luce del crepuscolo, nei mesi estivi, la mamma mi lasciava uscire con gli altri bambini del vicinato per giocare davanti casa al calcio della lattina e a nascondino, o per guardare i ragazzi mentre scendevano lungo la collina su barroccini costruiti da loro. "Mi raccomando, stai qui davanti, non girare l'angolo, non andare dove non mi sentiresti se ti chiamassi". Rientravo immediatamente ma di malavoglia appena mi chiamava la mamma, ma prima di andare a dormire stavo a guardarla mentre stirava, cuciva o rammendava calzini. Il nostro isolato, tra le vie Londra e Parigi, aveva otto case sul nostro lato della strada. Tutte tranne una erano occupate da famiglie italiane: Paolucci, Fumagalli, Bordessa, Borelli; gli americani vivevano sul lato opposto. Le sole persone tra loro che conoscessi per nome erano il signor e la signora Kerr, che mia mamma salutava timidamente e alla quale rivolgeva poche parole in un inglese sgrammaticato, ogni volta che si trovavano fuori contemporaneamente.

 

C'era una coppia di mezza età che abitava a fianco dei Kerr. La loro casa faceva angolo e da casa nostra riuscivamo a vedere le loro scale posteriori. Spesso vedevamo la signora nel porticato, sul lato posteriore, con un cane pechinese tra le braccia mentre agitava la mano e buttava baci al marito che girava l'angolo per andare a lavorare. "Come sono scemi" commentavano i mie genitori, per i quali le dimostrazioni d'affetto in pubblico erano disdicevoli, tanto meno comprendevano l'attaccamento che provavano per quel cane. Da un certo punto di vista, l'America era ancora un posto dove la gente si comportava in modo strano. Non ho mai visto i miei genitori baciarsi. Mamma e papà comprarono una radio. Ascoltavano tutto ciò che riuscivano a comprendere in merito alle 'chiacchierate' settimanali del presidente Roosevelt, al rapimento Lindbergh e agli incontri di pugilato di Primo Camera. Non erano tifosi di nessuno sport ma tenevano per l'italiano Camera, venuto in America per sfidare Joe Louis per il titolo di campione dei pesi massimi. L'aspetto fondamentale comunque rimaneva che la radio trasmetteva in italiano sia le notizie, sia il radiodramma serale di mamma.

 

Papà aveva un vecchio camioncino rumoroso con il quale andava a lavorare, inoltre possedevamo anche una macchina di seconda mano. Le domeniche, dopo pranzo, mentre io e la mamma sistemavamo i piatti e gli avanzi, papa si metteva il vestito buono, puliva la macchina e ne spolverava la tappezzeria con un piumino, poi aspettava che anche noi indossassimo gli abiti della domenica. Cambiarci d'abito realizzava concretamente parte del concetto di bella figura che mi è stato inculcato. Fare bella figura rappresentava la differenza tra l'essere parsimoniosi e l'essere spilorci; significava essere fieri di se stessi e del proprio aspetto anche quando si avevano indosso abiti economici. Fare brutta figura significava non vestirsi in maniera appropriata, esprimere contrasti familiari in presenza d'altri, non ricambiare un regalo o una gentilezza, non voler condividere acquisti con amici e, a tal proposito, papa diceva: "Se non puoi spendere, stai a casa". Intorno alla fine degli anni trenta - era il 1938 o 1939 - riuscirono a sostenere delle spese per apportare delle modifiche alla vecchia casa in stile tardo vittoriano, credendo di migliorarne l'aspetto (questo accadde molto prima che fosse di moda restaurare piuttosto che rinnovare).

 

Papà eliminò i pannelli di legno e i fregi elaborati dal salotto e dalla sala da pranzo, le porte tra queste due stanze, le vetrinette e il camino ormai inutilizzabile. Rese il salotto più ampio, eliminando l'antistante porticato che abbracciava metà casa. Divenne una casa di stile eterogeneo e decisamente indefinibile, forse moderna, se così poteva essere chiamata. Una casa con pareti levigate e stuccate e con lucenti pavimenti di legno. Per la prima volta i miei si recarono al grande magazzino dei Fratelli Lachman e comprarono alcuni mobili nuovi. All'epoca avevo iniziato le scuole superiori e possedendo una bella casa potevo finalmente invitare le mie amiche senza imbarazzo. In Brazil Avenue i miei genitori impararono a parlare inglese, di certo mamma meglio di papà e divennero cittadini naturalizzati', iniziarono ad apprezzare il pane a fette tostato, le gelatine di frutta, la maionese e i cibi in scatola: salsa di pomodoro, ananas e olive. Avevano pochi colleghi non italiani, che a volte ci venivano a trovare. Mamma e papà si adattarono a molto di quello che era americano, eppure in fondo al loro cuore, si sentivano ancora profondamente italiani. Brazil Avenue rimase la loro casa per ventuno anni, fino al 1947.

 

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