La dote
 

Non ho mai conosciuto i miei nonni. Non ne ho mai sentito le carezze, né udito le voci. Ho fotografie di tre di loro, ma nessuna della mia nonna materna, sembra non essere esistita per nessuno. Lei muta sempre nella mia immaginazione. Non ha lineamenti, né profilo, eppure rimane sempre una donna sulla soglia dei 60 anni: l'età che aveva quando morì. Non mi ha potuto trasmettere nulla perché io non ero ancora nata, ma qui a San Francisco, in un altro mondo, le mie mani hanno toccato la dote che lei aveva preparato per mia mamma e ho dormito tra le sue lenzuola, ho mangiato sulle sue tovaglie, ho asciugato il mio viso con i suoi asciugamani. "Guarda questa coperta, Lorraine" erano le parole di mia madre, "tua nonna ha tessuto la lana delle nostre pecore" e proseguiva raccontandomi di questa donna che non ho mai conosciuto. Mi narrava storie che ricordava mentre riordinavamo i letti insieme, mentre facevamo il bucato o mentre la osservavo sagomare, da un cumulo di farina, uova e lievito, un perfetto disco di pasta. La narrazione di questi ricordi si ripeteva costantemente e mia nonna divenne una figura quasi mitica poiché ne ho sentito parlare per tutta la mia vita. Filomena Cardellini visse e morì entro i confini di un comune della provincia di Pesaro sulla costa Adriatica dell'Italia centrale.

 

Trascorse i suoi anni da sposata a Montecchio, uno dei tanti paesi sulle dolci colline che portano al mare, senza mai viaggiare oltre la distanza percorribile a piedi da un centro abitato all'altro. Nacque nel 1862, prima dell'unità l'Italia. Poco prima di compiere vent'anni andò a servizio da una famiglia di sette persone, come aiutante in cucina. Il suo datore di lavoro amministrava terreni coltivati da mezzadri per la proprietaria: la marchesa. Filomena visse nell'abitazione principale per dieci anni e quando la marchesa visitava le tenute di campagna, Filomena era la domestica prescelta per la preparazione della prelibata pasta all'uovo, il piatto tipico locale. Quando sposò mio nonno, Giovanni Barbieri, rinunciò al benessere di cui godeva nelle terre della marchesa e fece ritorno a una vita modesta. Le sue figlie non l'hanno mai sentita compiangersi o lamentarsi, ma da adulte capirono il dolore del padre per non essere stato in grado di dare loro una vita migliore. Quando in giorni speciali la tavola offriva carne o uova, Giovanni fingeva inappetenza e prendeva solo una piccola porzione. Le ragazze, da piccole, gli credevano, ma Filomena sapeva che lo faceva per loro. Mia nonna ha partorito tre figlie, una morì nell'infanzia e mia madre, Maria, era la minore.

 

Filomena, a giudizio di mia madre, era una donna chiusa, riservata e imperturbabile; una donna dignitosa e a modo. Rideva molto poco e quando piangeva versava lacrime silenziose e anche quando era felice, non lo dava a vedere. Lei e Giovanni non alzavano mai la voce, non cantavano né danzavano e non si scambiavano gesti d'affetto in pubblico. La loro era una vita di restrizioni nella quale si dedicavano l'uno all'altra e alle figlie. Vivevano in una casa che Giovanni aveva ereditato dal padre e per mantenersi, lavoravano la terra a mezzadria. "Si stava bene in confronto agli altri; si aveva da mangiare in abbondanza" diceva solitamente mia madre. Certo, è normale quando si è bambini non ricordare i momenti difficili perché si è protetti dai propri genitori e dall'incoscienza dell'età. Per i miei nonni, invece, la sopravvivenza era una lotta quotidiana per superare le difficoltà legate al tempo, al luogo e alla classe. Questa piccola famiglia aveva sempre il pane buono, possedeva infatti un grande forno di pietra che mio nonno provvedeva ad alimentare per mezzo di legna, bastoncini, radici e di qualunque combustibile insomma, che riuscisse a trovare nella campagna circostante, affinché lo potessero usare i loro vicini. Per ogni porzione infornata, tutti lasciavano una pagnotta come forma di pagamento.

 

Per la tavola di famiglia, i nonni sceglievano quello fatto con la farina più bianca poiché immaginavano arrivasse dalle cucine più pulite; la seconda scelta la davano in pasto ai pochi polli e al maiale che tenevano nella stalla adiacente alla casa. Possedevano anche due pecore che procuravano loro il pecorino e la lana per il filatoio a mano di Filomena. Giovanni se ne andava per giorni o per intere settimane quando riusciva a lavorare per le ditte che si occupavano di costruzioni stradali. Lavorava per i contadini delle aree limitrofe durante la semina e il raccolto, ma senza ricevere denaro. Per questi lavori veniva pagato con il grano per fare la farina, l'uva per il vino e le olive per ricavarne olio. Dopo il raccolto, i contadini lasciavano che gli abitanti del paese prendessero quello che era d'avanzo. Le donne e le ragazze, con le loro gonne lunghe e i fazzoletti sul capo a proteggere i capelli dal sole e dalla polvere, ispezionavano i campi in cerca di spighe di grano, usando i grembiuli a mò di sacchi.

 

I ragazzi arricchivano i pasti della famiglia rubacchiando dai contadini. Mia madre raccontava: "era sempre Irma quella più coraggiosa, io ero troppo timorosa". Sua sorella Irma si intrufolava in un campo per due pesche mature o per un grappolo d'uva correndo poi a casa per condividerli con la famiglia e consumarli insieme al pane. Era una un'abitudine consolidata e non se ne faceva mistero: i contadini coltivavano la terra e tutti gli altri sottraevano un po' di frutti. Gran parte dell'economia era basata sul sistema del baratto. I pochi soldi che Giovanni guadagnava si spendevano per scarpe, vestiti e alimenti base che accrescevano le loro piccole provviste. In rare occasioni, se lavorava a Pesaro, camminava setto o otto chilometri per raggiungere il porto, dove con pochi centesimi, comprava del pesce fresco.

 

Quando Irma e Maria erano ancora ragazzine, parte dei soldi fu destinata all'acquisto di abiti e tessuti per la dote. Un giorno si sarebbero sposate e quando fosse accaduto, la famiglia dello sposo avrebbe provveduto al tetto sulla loro testa, mentre la famiglia della sposa avrebbe fornito biancheria sufficiente per tutta la vita. Una ragazza aveva più possibilità di arrivare alle nozze se proveniva da una famiglia che le aveva pianificato bene il futuro. Giovanni aveva tosato le loro due pecore; Filomena aveva pettinato e lavato la lana e l'aveva poi tessuta ricavandone un grezzo telo giallastro, trasformato infine in spesse coperte. Una di queste, pesante e increspata come un tappetino berbero, divenne la mia coperta per tutti gli anni che ho trascorso nella casa dei miei genitori a San Francisco. C'era una considerevole scelta nella dote di mia madre: sia di biancheria necessaria alla gestione quotidiana della casa sia di indumenti personali adatti ad una sposa. I teli più raffinati, provenienti da negozi di stoffe di Pesaro, erano stati affidati ad una ricamatrice dell'adiacente paese di Farneto, che lavorandoli abilmente, ne fece i pezzi di maggior pregio del corredo. L'impiego di questi capi era destinato ad occasioni rare quali: la settimana santa, il giorno in cui il prete benediva la casa, la prima notte di nozze e quando un cadavere giaceva sul suo letto, salutato dalle preghiere di parenti e amici.

 

Nel piccolo appezzamento di terra dietro la loro casa, Giovanni coltivava la canapa. Dopo la raccolta, seguiva un lungo processo di ammollo nel fiume vicino; in seguito separava e tagliava gli steli in fili sempre più fini tanto da renderli sufficientemente flessibili e sottili per il telaio a mano di Filomena. Nei lunghi giorni invernali, mia nonna filava gli interminabili rocchetti di filo che avrebbe poi tessuto formando strisce di stoffa lunghe abbastanza da comporre lenzuola. Nei caldi giorni estivi lei e le sue figlie trasportavano le stoffe fino al fiume, le immergevano nella limpida acqua corrente e le stendevano sui cespugli affinché si sbiancassero e riasciugassero. Immergere e asciugare, immergere e asciugare... finché la stoffa diventava abbastanza bianca per una mamma che la donava alla figlia-sposa. Molti anni dopo, sul mio letto, la mia pelle si strofinava su queste lenzuola (un pochino ruvide ma sempre leggermente calde in inverno e fresche in estate) che ancora avevano l'odore di terra, di fiume e di sole. Dall'età in cui erano in grado di saper usare un ago, Filomena, a poco a poco, insegnava alle sue figlie come trasformare la stoffa in asciugamani, tovaglie e tovaglioli decorandone alcuni con minute iniziali della futura sposa ricamate delicatamente in un angolo. Alcuni altri venivano ornati all'uncinetto con sfarzosi orli o con motivi in rilievo. Sulle federe si ricamavano messaggi come: "Sogni d'oro" ed "Eterno Amore".

 

Gli asciugamani venivano decorati con iniziali alte quattro pollici - M.B. - ricamate utilizzando una grafia armoniosa. Tutto era candido. La dote non arrivò in America con mia madre nel 1921, quando venne per sposare mio padre, attraversando l'oceano nell'alloggio comune della classe più economica della nave. "Non portare il tuo corredo, Maria" le scrisse mio padre Carlo "se tutto va bene, torneremo in Italia tra uno o due anni". Lei allora portò solo poche lenzuola, pochi asciugamani e la sua biancheria intima da sposa. Non fecero fortuna facilmente e neppure in fretta, il susseguirsi degli eventi solo lentamente ha permesso loro di integrarsi nella loro nuova terra. Sei anni dopo, nel 1927, i miei genitori chiesero ad un amico in procinto di partire per il vecchio paese, di riportare al suo rientro negli Stati Uniti la dote di mia mamma, certamente non tutta ma il maggior numero di pezzi che gli fosse stato possibile. All'epoca mio nonno materno era già morto e la sua eredità era nelle mani dei parenti acquisiti, la famiglia di mio padre, i quali prepararono un baule (che conteneva solo parte della dote: fortunatamente tutte le cose più graziose) a cui legarono attorno delle corde affinché affrontasse agevolmente l'imbarco. Il resto (rotoli e rotoli di tessuto legati con dei nastri di stoffa) rimase conservato nella casa dei miei zii per altri vent'anni; mia madre non ha mai rinunciato al suo diritto su di esso.

 

Nel 1949, mio padre tornò in Italia e venne a sapere che parte del corredo era stato danneggiato dalle schegge delle bombe della Seconda guerra mondiale, ma la maggior parte era intatto. Lo riportò tutto a San Francisco. Quando nel 1975 Ronda, la maggiore delle mie figlie, fu in procinto di sposarsi, mia madre incartò una scatola per la sposa con della biancheria quasi intatta, proveniente dalla sua dote. Successivamente preparò due pacchi simili per le altre due mie figlie, Carla e Paula. Le cose più belle, tre o quattro di quelle nuove, rimangono ancora oggi nel baule di cedro in camera mia. A volte vi frugo con una o l'altra delle mie figlie; spieghiamo i pezzi e ne ammiriamo il lavoro fatto a mano e parliamo di mia madre o della madre di mia madre. Questi preziosi capi della dote rappresentano tangibilmente quanto rimane della vita che mia nonna ha trascorso davanti al focolare; sono tutti il tema centrale delle storie che mia mamma mi ha sempre raccontato su di lei. Non ho mai visto una fotografia o udito il suono della sua voce, eppure sento di conoscerla a fondo.

 

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