La figlia americana
 

Lucilie divenne la mia migliore amica nell'età in cui avevo bisogno di una confidente, di una compagna che mi sostenesse nelle mie prime ribellioni alle regole imposte dai genitori. Condividevamo i segreti sui ragazzi per i quali avevamo delle cotte; ci scambiavamo tutte le nuove controverse scoperte sul sesso. La nostra amicizia nacque nella classe della signora O'Rourke, alla scuola Monroe e il primo anno di scuola superiore Balboa, eravamo diventate inseparabili. I nonni di Lucilie erano immigrati siciliani ma sua madre e suo padre erano cresciuti a San Francisco, quindi Lucilie fu allontanata molto presto dalla cultura del vecchio paese. C'erano sostanziali differenze nella libertà che ci concedevano i nostri genitori, ma io volevo fare ciò che faceva lei: andare in centro il sabato pomeriggio a girare per negozi invece di aiutare la mamma a fare le faccende, rimanere in centro la sera a guardare un film. Se la nostra amica Ann stava svolgendo il suo lavoro di maschera al teatro St Francis, poteva farci sgattaiolare dentro, ma fino a che andai a scuola, papà mi diceva: "Tua madre ha troppo da fare, devi rimanere a casa ad aiutarla". Lucilie poteva dormire da noi ma le occasioni in cui io potevo fermarmi da lei erano rare perché i miei genitori avevano bisogno di sapermi tornata a casa sana e salva, qualunque fosse il posto dove avessimo trascorso la serata. Si dimostravano comprensivi rispetto alle mie uscite serali in Mission Street per incontrare le mie amiche in gelateria. Ci ammassavamo in quattro o cinque, in un piccolo chiosco a parlare di ragazzi e ridere sguaiatamente; spesso facevamo una piccola colletta per comprare un pacchetto di Lucky Strike e provare a fumare. Dopo la scuola ci vedevamo da me perché non c'era nessuno in casa; andavamo nel seminterrato a fumare una o più delle nostre sigarette, poi spalancavamo la porta del garage per far uscire la nube di fumo.

 

Quando ero adolescente, la I.A. (così chiamavamo il Club sociale degli italoamericani) il sabato organizzava serate danzanti negli anni che precedettero la guerra. Un'altra delle amiche era Rena, la figlia di amici di famiglia che vivevano a San Matteo e che venivano in città ogni sabato. Io e Rena, complottavamo sempre su come ottenere il permesso per trascorrere le serate alla I.A. "Ma', Rena può dormire da noi? Possiamo andare al club?" Sua mamma non sollevava obiezioni, forse perché la figlia aveva un anno o due più di me, mentre la mia diceva: "Chiedi a tuo padre". "Fa', Io e Rena possiamo andare al club stasera?" "Si" ma ad una condizione "che tua madre venga con voi". Era un club in cui solitamente tutti i membri della famiglia potevano essere coinvolti ma le danze del sabato sera erano rivolte solo ai giovani, perciò saremmo dovute andare da sole o non andare affatto. "Papà, ti prego, nessuno ci va con la mamma". La madre di Rena e la mia ci sostennero: "Andrà tutto bene, è solo a un paio di isolati di distanza". Papà acconsentì ma sapevo che sarei dovuta tornare all'ora stabilita, altrimenti la mamma sarebbe stata redarguita. Il suo brontolio era lo stesso per tutte le situazioni, come quando chiedevo di comperare qualcosa di nuovo da mettere perché era di moda e "Ce l'hanno tutte le mie amiche" e la mamma faceva da intermediario, negoziando le solite risposte di papa: "Davvero ne ha bisogno?" Volevo guadagnare dei soldi da sola, come la mia amica Lucilie. Il giornale del nostro quartiere, Help Wanted pubblicava annunci di lavori disponibili, come quello di babysitter o collaboratrice domestica, ma mio padre non volle mai sentirne parlare, per lui significava fare la serva da degli sconosciuti. In Italia aveva visto troppe ragazzine costrette ad abbandonare la propria famiglia per andare a servizio in case dove dovevano trasferirsi.

 

Solo i più poveri erano costretti a far subire questa pena alle proprie figlie, le quali avrebbero potuto anche rischiare di andare incontro ad abusi sessuali dall'uomo della famiglia in cui lavoravano. Papa mi permise di avere il primo lavoro a sedici anni, in una fabbrica di carta. In verità non si aspettava che avrei perseverato nella ricerca di un'occupazione, ma approvò questo impiego con un unico suggerimento: "Ricorda di mettere qualche soldo in banca". Lui si aspettò sempre che mia mamma lo aiutasse a guadagnare, e così fu, per vari periodi e in diverse industrie tessili, soprattutto man mano che crescevo e che potevo badare a me stessa. Avevo quasi diciassette anni quando scoppiò la guerra. Il mio passaggio alla maturità iniziò poco dopo, quando iniziai a lavorare come segretaria, per sei giorni a settimana presso la base militare di Oakland. "Non spendere tutto quello che guadagni" mi disse mio padre, "ogni mese consegna qualcosa a tua madre". Iniziai a darle l'equivalente dell'affitto della camera e del vitto ma nessuno dei due pretendeva soldi per le spese di casa, così tennero da parte tutto quello che passavo loro. Mia madre depositava l'intera somma in un conto corrente bancario che aveva aperto quando ero piccola. Rimase custode dei miei risparmi fino al mio matrimonio, quando me li affidò. Terminata la scuola, i miei mi concessero più libertà. Il sabato sera, io, Lucilie e Ann indossavamo gli abiti più carini che avevamo, e i tacchi alti per andare nelle grandi sale da ballo in città: Wolohan's, l'Avalon, e El Patio. Anche gli uomini si vestivano in modo elegante, sia con la divisa militare sia in abiti civili e cravatta. Erano tutti militari di passaggio a San Francisco, per questo potevamo vederli al massimo due o tre volte prima della loro partenza, ma era molto più consueto che li incontrassimo in una sola occasione.

 

Le luci si abbassavano, il lampadario sferico interamente specchiato irradiava luce dal soffitto fino alla pista da ballo e quando l'orchestra iniziava a suonare (Begin thè Beguine, In thè Mood, Take thè A-Tram) potevamo contenere a fatica il nostro forte desiderio di ballare. Le ragazze stavano tutte da un lato della sala, fingendosi coinvolte in interessantissime conversazioni tra loro, in realtà spiavano, con la coda dell'occhio, l'avvicinarsi del cavaliere che le avrebbe invitate a ballare, sperando sempre che fosse la persona sulla quale avevano messo gli occhi. Se fossimo state fortunate, entro la fine della serata ci saremmo ritrovate amiche dei ragazzi e invitate ad andare a mangiare insieme più tardi per poi essere riaccompagnate a casa. Se i ragazzi che si fossero offerti di accompagnare a casa ciascuna di noi non si conoscevano, la regola sarebbe stata comunque che noi ragazze saremmo dovute rimanere sempre insieme. I miei genitori sapevano quello che facevo. A volte un marinaio o un soldato mi chiedeva un appuntamento e mi telefonava a casa. Altre volte invece non sapevano nulla, quando, ad esempio, in città incontravo qualcuno che mi accompagnava a casa di Lucilie e poi tornavo da sola. Per accontentare i miei genitori e, al contempo, avere la libertà delle mie amiche, dovevo tramare e architettare alle loro spalle. Vivevo con i miei genitori e questo garantiva loro una considerevole capacità di controllo sulla mia vita. A diciannove anni decisi di andare via di casa. Una delle mie colleghe (più giovane di me ma già viveva da sola) si stava trasferendo in Oregon e mi chiese di andare con lei. Non feci che pensare alla sua proposta, sarebbe stata una grande opportunità, una scusa perfetta per andarmene, la destinazione era irrilevante.

 

I miei genitori avevano conosciuto Barbara quando era venuta a cena da noi una o due volte. Una sera a tavola cercai di introdurre l'argomento: "Barbara andrà nell'Oregon, a vivere vicino a sua sorella; mi ha chiesto di farle compagnia per il viaggio e vorrei andare". Papà fu il primo a rispondere furiosamente mentre i piatti tintinnavano dopo che diede un pugno sul tavolo: "La tua casa è questa, è qui dove vivi. Basta!" che ovviamente significava "Questo è quanto e non si discute". La mamma rimase più calma ma tanto sbigottita quanto contrariata: "Che ti è successo? E quella Barbara, figlia di nessuno, che ti ha messo questa idea in testa". Per il momento l'ebbero vinta loro incutendomi timore ma non sarebbe durato molto. Al lavoro, io e Barbara continuavamo a fare progetti. Una sera mi fermai in Market Street, comprai due valigie capienti e le portai a casa sul tram. Quando entrai in casa, papà iniziò a piangere: "Allora partirai?". La mamma era stravolta all'idea di quello che mi sarebbe potuto accadere. "Cosa dirà la gente? Non posso credere che lo farai davvero". Provai a convincerli che non stavo facendo niente di male e di quanto fosse normale per una ragazza della mia età andarsene via di casa. Diedi loro sia l'indirizzo della casa di Portland in cui io e Barbara saremmo andate a vivere, sia quello della sorella di Barbara, che viveva in una cittadina vicina. Obbiettarono ancora ma si rassegnarono presto. La mattina in cui partii, la mamma mi preparò un pranzo al sacco, "Fa' la brava" mi disse appena salii sull'auto di papà. Un tempo, l'essere brava, aveva significato dover essere composta; ora che ero una donna, il senso di quella frase era: dover rimanere vergine, immacolata per l'uomo che un giorno mi avrebbe sposato. Fu un messaggio che compresi chiaramente.

 

Papà mi accompagnò alla stazione ferroviaria e mi vide partire, aveva gli occhi lucidi quando ci salutammo "Facci sapere qualcosa". La mia grande avventura non fu entusiasmante come avevo immaginato. Io e Barbara affittammo una stanza in casa di un'anziana coppia di Portland; io potei trovare solo un lavoro part-time perché non avendo un documento indispensabile in quel periodo di guerra che accertasse il mio licenziamento dalla U.S. Army, non potevo essere assunta a tempo pieno. Barbara era abituata a vivere da sola ed essere indipendente mentre io, vivendo con i miei genitori, quando tornavo a casa, trovavo il calore della famiglia; cercai allora di mitigare il senso di solitudine, scrivendo alle amiche di San Francisco. Per la mia gioia, Ann mi rispose che voleva raggiungermi. Pensavo fosse una bellissima idea? Arrivò il mese dopo che mi fui stabilita io, Barbara si trasferì a casa di sua sorella. Ero felice di vivere con la mia vecchia amica, lontane da casa, libere da ogni controllo. Dopo poche settimane avevamo già visto tutta Portland e i dintorni. Non avevamo particolari vincoli di lavoro (facevamo entrambe le cameriere) e non avevamo amici (né maschi, né femmine) così decidemmo di trasferirci a Seattle. Prendemmo una stanza in un hotel della città e di nuovo trovammo lavoro come cameriere al Bon Marche. La sera frequentavamo i bar in cui c'era musica e ballo e dove avremmo potuto incontrare qualcuno. Conoscemmo alcuni militari, ce n'erano più a Seattle che a Portland. Sia che tornassimo da sole con l'autobus la sera o sia che un marinaio o un soldato ci accompagnasse a casa con il taxi, non temevamo aggressioni.

 

Quelli erano tempi innocenti, in cui i ragazzi sapevano bene che offrire da bere a una ragazza o pagarle il taxi per rientrare a casa, avrebbe significato, al massimo, il bacio della buona notte. Il 6 giugno 1944: il D-day su una spiaggia della Francia, io e Ann eravamo ancora a Seattle. Erano anni violenti, la guerra imperversava ovunque tranne che in America. Gli uomini che incontravamo erano di ritorno a casa, provenienti dal Sud del Pacifico, oppure era lì che si recavano per sostituire qualcuno. C'era qualcosa d'irreale nella mia vita di allora, nel mio essere lontana da San Francisco e dai miei genitori, nel fatto che scrivessi delle lettere ai ragazzi del mio quartiere, ormai lontani anche loro, in luoghi remoti in cui nessuno di noi si sarebbe mai immaginato di andare. Sarei dovuta essere con loro, piuttosto che condividere la mia giovinezza con degli estranei. Io e Ann guadagnavamo molto poco come cameriere, ma ciò che ci mancava in termini di denaro, lo compensavamo con l'ardore e la creatività dei nostri anni. Rubacchiavamo il cibo al lavoro, prevalentemente panini, e acquistavamo la frutta. Spendevamo solo per la stanza e per i divertimenti. Facemmo visita ai parenti di Ann, che vivevano vicino Mount St Helens, andammo a Tacoma e Bremerton. Una volta andammo a Victoria, nella British Columbia, e davvero esagerammo, cenando e trascorrendo una notte all'Empress Hotel, il nostro ultimo festeggiamento prima di decidere che eravamo stanche di vivere da sole. Sapevo dall'inizio che per me sarebbe stata solo una 'lunga vacanza' e avevo anche cercato di chiarirlo ai miei genitori. Prendemmo il treno per San Francisco e arrivammo a casa il 4 luglio. Ero stata via tre mesi.

 

Papà ci venne a prendere alla stazione; quella sera mamma preparò una cena domenicale. Non ci furono recriminazioni per quel giorno, ma per il resto della sua vita, la mamma ogni tanto faceva riferimenti a "quando te n'eri andata". Per mio padre invece fu semplicemente un'altra occasione alla quale applicare la sua filosofia del "Dimentica!" Ciò che è passato, è passato. Ripresi la mia vita lavorativa. Un anno dopo, la guerra era finita. I soldati e i marinai arrivavano al porto di San Francisco per raggiungere tutto il Paese. Io, Ann e Lucilie andavamo ancora a ballare al Wolohan's; i militari ancora passavano di lì, ma ora erano diretti dalla parte opposta: a casa. Anche i nostri compagni di scuola e i nostri vicini stavano tornando a casa. Tra questi, Mero e suo fratello, figli della vecchia amica di mia madre, Teresa. Quando Mero tornò, ci vedemmo frequentemente anche grazie all'amicizia che legava le nostre mamme. Andammo al cinema insieme qualche volta, anche casualmente. Non mi chiese mai un vero appuntamento. Ci piaceva semplicemente stare insieme, proprio come da bambini, quando lui mi rincorreva per tutta la casa. Non ci eravamo visti per tre o quattro anni e non eravamo più bambini. Stavo quasi per confondere l'affetto che provavo per lui con qualcosa di più, ma poi incontrai Mac e compresi la differenza.

 

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