Lezioni di italiano
 

L'italiano fu la prima lingua che udii e che parlai ma conoscevo già l'inglese quando andai all'asilo perché lo imparai dai bambini dell'isolato che erano tutti un po' più grandi di me e andavano a scuola. La mia prima classe fu il bungalow, alla Excelsior School di San Francisco, una casetta dietro l'edificio principale, riscaldata da una massiccia stufa nera. La signorina Rahilly si prendeva cura dei piccoli, tutti bimbi dei vari stati europei, che popolavano il nostro quartiere. Lei era gentile ma io ero molto timida e non sapevo mai se le parole che stavo pronunciando fossero quelle utilizzate dai miei genitori o quelle che la mia insegnante avrebbe voluto che io utilizzassi. "Signorina Rahilly, non trovo il mio cappotto" e lei mi accompagnava al guardaroba per recuperarlo; oppure andavo a scuola con un fiore per lei e le dicevo: "Le ho portato un fiore dal mio giardino". Mi sentivo profondamente imbarazzata quando mi correggeva, nonostante lo facesse molto dolcemente. A partire dai dieci anni, a scuola, iniziai a frequentare corsi di lingua italiana due volte a settimana per tre anni. Ci chiamavamo Gruppi Giovanili Italiani all'Estero e frequentavamo scuole fondate dal governo fascista di Benito Mussolini per i figli degli emigrati. Il direttore veniva dall'Italia ed e aveva rapporti con il consolato, mentre gli insegnanti erano del luogo. I miei genitori desideravano che io imparassi a leggere e scrivere la loro lingua e che conoscessi il più possibile il loro paese di origine. Erano gli anni prima della Seconda guerra mondiale, quando Mussolini aveva condotto l'Italia nella guerra in Etiopia e l'istituzione di scuole in America aveva lo scopo di ottenere il consenso degli emigrati, usando la loro nostalgia per il vecchio paese e per plasmare le menti dei loro bambini.

 

I miei libri di lettura di prima e seconda contenevano storielle innocue su un bambino e una bambina: Allegretto e Serenella. Il libro di testo di terza non era affatto innocente; le informazioni sull'editore impresse sul retro di copertina riportavano: Scuole Italiane All'Estero, 1935 - Anno XIII (il tredicesimo anno di Mussolini al potere). Nella sezione riguardante la storia d'Italia, ogni capitolo iniziava con un'immagine di guerra: una spada, un cannone, un elmetto o una baionetta; tutte le storie narravano di eroi di guerra, che fossero vincitori o martiri poco importava. L'ultimo capitolo era intitolato La Rivoluzione Fascista e informava che "il Fascismo, che aveva in sé il seme del rinnovamento, si era espanso, aveva radici profonde e stava diventando incredibilmente potente... l'Italia e il Fascismo sono diventati una sola cosa". Veramente leggevo queste frasi a dodici anni? Mi sembra di leggerle adesso per la prima volta, ora che sono vecchia. La sezione dedicata alla geografia era molto più semplice, benché scritta come se fosse una guida di viaggio piuttosto che come un libro di testo: "Ogni regione possiede bellezze che la caratterizzano: la propria campagna, la propria costa profumata da boschi di pini o di aranci, le proprie città ricche di monumenti e tesori artistici". Imparai l'italiano molto più facilmente di tanti miei compagni di classe perché fortunatamente a casa i miei genitori mi parlavano in italiano e non in dialetto. A volte, la sera, mentre la mamma stirava o cuciva, mi dettava delle parole che dovevo sillabare: Bi-ci-clet-ta. Mi ricordo di aver imparato prima questo termine in italiano che bicycle in inglese. Ogni parola in italiano si scrive come si pronuncia, così potei presto elaborare qualunque parola poiché avevo imparato a rappresentare ogni suono.

 

A scuola vinsi prima la medaglia d'argento e l'anno successivo quella d'oro; ogni volta il premio veniva annunciato da una lettera indirizzata a mio padre e che proveniva dalla segreteria del direttore. La mamma si preoccupava che per l'occasione avessi il vestito e le scarpe della domenica, e il giorno della premiazione andavamo tutti e tre alla Fugazi Hall sulla Green Street di North Beach. Non era un momento celebrativo limitato all'ambito scolastico ma era un evento che coinvolgeva tutti gli Italoamericani di San Francisco. In queste occasioni, i genitori socializzavano e potevano conoscersi tra loro e con gli insegnanti. Molti anni più tardi trovai vecchi libri di scuola dimenticati sullo scaffale di un ripostiglio e sfogliandone alcune pagine inorridii per il loro contenuto. Quando vidi mia madre e mio padre chiesi loro se fossero a conoscenza della natura politica di quel tipo di scuola. "Non credo che abbiamo mai sfogliato questi libri" disse la mamma facendo spallucce "si andava agli incontri quando dovevamo ma si era sempre stanchi, dopo aver lavorato tutto il giorno; si andava per dare il nostro piccolo contributo quando e era qualche festa. Ci premeva solo che tu imparassi a leggere e a scrivere in italiano". Le scuole italiane morirono di morte naturale quando in Europa la Seconda guerra mondiale stava volgendo al termine ma io l'avrei comunque lasciata per iniziare il mio primo anno da matricola alle superiori. Al liceo Balboa, frequentai classi di italiano per quattro semestri durante il secondo e il terzo anno. Una delle mie insegnanti si chiamava Caterina Raffo, nata in America ma cresciuta in Italia. Era una nubile di mezza età, alta e snella e con la pelle olivastra, un viso classico lasciato scoperto dai suoi capelli neri legati all'indietro in modo severo ma alla moda.

 

Quando ci chiamava per intervenire ad alta voce, si rivolgeva a noi con un "Signorina Paolucci", non Lorraine "per favore, coniughi il presente condizionale del verbo lavare". "Io laverei, tu laveresti..." "Molto bene, grazie". Era gentile ma formale e, anche se avrei voluto l'opposto, non incoraggiava molto gli studenti. I miei giudizi finali furono delle B per entrambi i semestri nei quali lei fu la mia insegnante, e A per i due semestri con un'altra insegnante. La Signorina Raffo era abbastanza saggia da capire che avrei potuto fare meglio, ma altrettanto impassibile da non stimolarmi. Avevo sedici anni e desideravo andare bene a scuola e l'italiano era una materia in cui avrei potuto avere buoni risultati senza faticare. Quando iniziai a lavorare, per circa tre anni durante la guerra, svolsi mansioni di segretaria per l'esercito statunitense; successivamente feci la lettrice (presso l'Ufficio censura di San Francisco) delle lettere provenienti dall'Italia. La guerra stava finendo e mentre le truppe alleate stavano infervorando la penisola italiana per liberarla, la corrispondenza postale venne riversata in tutti i paesi e città d'America in cui si trovavano dei parenti, bramosi di notizie dall'Italia, dopo anni in cui non ne avevano ricevute. Il mio lavoro, e quello di dozzine di censori, consisteva nel leggere queste lettere per scorgere tracce riferimenti ad attività sovversive. "Caro fratello" questo era spesso il modo in cui iniziavano, oppure "Caro padre, caro cugino..." La maggior parte dei mittenti non possedeva abilità di scrittura tali da articolare informazioni diverse da quelle riguardanti fatti personali: "Stiamo tutti bene e speriamo di ricevere notizie che sia altrettanto per voi", "Nostro padre è morto d'infarto nel 1942", "Ho un nipotino ora che ha quasi tre anni", "Abbiamo bisogno di tutto, mandateci qualunque cosa il prima possibile".

 

Migliaia di lettere che si assomigliavano incredibilmente, in cui si manifestava la necessità di ripristinare un contatto con le persone amate e la speranza di non essere abbandonati da coloro che erano partiti per l'America anni prima. All'ora di cena, i miei genitori erano sempre impazienti di sentire ogni novità dall'Italia, anche da perfetti sconosciuti, nell'attesa di ricevere notizie dai propri cari. In seguito iniziai a scrivere di tanto in tanto delle lettere indirizzate ai miei zii e ai miei cugini (i miei nonni erano tutti morti all'epoca) in cerca non sapevo nemmeno io di cosa. Quando avevo vent'anni quelle persone erano molto lontane da me, in ogni senso. Il mio italiano, perfezionato a scuola, era appena più corretto di quello che parlavo da bambina e che ancora sentivo dai miei genitori e dai loro amici, ma era un italiano vecchio e statico, non era la lingua dinamica di un popolo e un paese che si stava evolvendo. Sebbene non avessi programmato di migliorare la mia conoscenza della lingua un giorno, nel 1979, mentre scorrevo gli annunci pubblicitari sul giornale della Stanford University, ne trovai uno che diceva: "Cercasi segretaria presso il dipartimento di Italiano. Eccellente uso della grammatica. Correzione di bozze e coordinamento della Stanford Italian Review. Indispensabile la conoscenza dell'italiano". Presentai domanda e ottenni il posto. Ciò che rendeva unico questo impiego, diversamente da tutti quelli che avevo svolto, era il fatto che potessi godermi appieno la mia appartenenza a due culture, un aspetto che fino ad allora aveva riguardato solo la mia vita privata e il lavoro ne era rimasto escluso. Io partecipavo come uditrice alle classi di lingua e di letteratura.

 

Durante i cinque anni accademici, dal 1979 al 1984, assistetti alle cerimonie di laurea degli studenti che conobbi fin da quando erano matricole. Avevo battuto a macchina i loro esami e ascoltato i loro racconti quando ritornavano dalla sede della Stanford University a Firenze. Curavo la stampa dei manoscritti in inglese e in italiano e li preparavo per la pubblicazione. C'erano sei o più docenti titolari dei corsi d'italiano, tutti madrelingua, con i quali conversavo quotidianamente e che correggevano i miei errori. Tutto ciò che ho ascoltato e letto e tutte le indicazioni che mi sono state date, mi hanno aiutato a passare dalla conoscenza di una lingua arcaica alla sua versione contemporanea. Ma ci sono occasioni in cui torno volentieri a far uso di vecchie espressioni usate dalla mamma e, poiché mi sono così familiari, vorrei che ci fosse qualcuno intorno a me in grado di comprenderne il significato. A Stanford, il mio vocabolario si ampliò e crebbe anche la mia conoscenza del popolo italiano. Scoprii, senza rendermene conto la coscienza dei molti modi in cui sono italiana e gli altrettanti in cui sono americana, di entrambi orgogliosa e felice. L'appartenenza a due culture però, ha dato alla mia vita una dualità non sempre facile da gestire ma le ha donato anche una certa completezza. So che c'è un'altra parte del mondo che mi appartiene e altre voci che mi parlano.

 

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