Le feste
 

Quando da bambina la mattina di Natale mi svegliavo, l'interno e l'esterno della casa avevano un aspetto del tutto speciale. In casa si potevano già vedere: terrine contenenti nocciole ancora col guscio di varie sfumature di marrone, con in mezzo degli schiaccianoci; un'altra ciotola piena di mandarini con pezzetti di steli e foglie verdi; un piccolo piatto colmo di caramelle italiane; un prodotto importato che veniva acquistato nella pasticceria di North Beach, il torrone, tipico, alla mandorla, confezionato in scatoline con stampe che riproducevano opere d'arte. Un altro richiamo al giorno di festa era il profumo che giungeva dalla cucina già dal mattino presto: quello delle erbe aromatiche che papà aveva colto nell'orto e portato alla mamma (prezzemolo, timo e maggiorana). "Carlo, ti sei dimenticato il rosmarino, mi serve per cucinare i polli". La carne per il sugo stava già soffriggendo nell'olio d'oliva in una pentola molto capiente. La mamma sbucciava aglio e cipolla, molto aglio che le sarebbe servito per la salsa, per la carne di vitello rosolata e per i polli arrosto. "Non si può cucinare solo un piatto, se a qualcuno non piace, devi proporre un'alternativa". Si era alzata presto ed era andata alla prima messa del mattino nella chiesa Corpus Christi da sola. Papà lasciava un po' al caso la sua presenza in chiesa, e solitamente non praticava. Per lui la chiesa era solo burocrazia in più che evitava volentieri, ma non mise mai in discussione la fede cristiana che gli fu trasmessa. C'era talmente poca enfasi nello scambio dei doni che ricordo con difficoltà di averne ricevuti, e comunque non ricordo affatto nessun rituale particolare. In verità ricevetti sempre qualcosa di speciale dai miei genitori: un pianoforte giocattolo con il suo sgabello, un tavolino di quercia con due seggiole, una bambola, una fisarmonica in miniatura, una carrozzina per le bambole. I miei giocattoli erano belli e di qualità, resistettero sempre fino a che io diventavo troppo grande, così venivano donati a figli più piccoli di qualche amico.

 

Forse duravano a lungo perché mi avevano insegnato ad averne cura e a non rompere quei pochi che avevo. È chiaro che questi arrivavano da mamma e papà, non esisteva nessun Santa Claus, "Siamo noi Santa Claus": diceva papà. La mia decima vigilia di Natale, papa mi portò nel negozio di giocattoli Ferrara di Mission Street e mi comprò i pattini a rotelle, malgrado le proteste di mia madre: "Vedrai Carlo, si fa male". Come previsto, mi feci male; iniziai a scendere la nostra collina ma non avevo idea di come fermarmi, così finii contro il muretto davanti alla casa di Meri Grassa e mi coprii il braccio di lividi. La mamma ricavò un benda da uno strofinaccio ma la portai solo per qualche giorno perché non mi feci troppo male. Non avevo mai avuto un triciclo e nemmeno una bicicletta perché abitavamo su una collina e se fossi andata sul marciapiede in pianura dietro l'angolo la mamma non mi avrebbe potuto vedere dalla finestra. Non mi sono mancati questi divertimenti poiché, in genere, le bici e gli altri giochi a rotelle erano per i maschi, mentre le femmine li osservavano e basta. Solitamente ci scambiavamo piccoli doni con i bambini delle famiglie che invitavamo da noi per la cena di Natale. Erano pensieri acquistati da Woolworth e, durante i Natali passati con zio Vincenzo e zia Ramona, i miei cugini mi regalavano carta da lettere o sali da bagno e quando non fui più bambina, l'acqua di colonia Heaven Scent. Negli anni della mia adolescenza la Grande Depressione era terminata e la guerra aveva portato qualche dollaro in più sul conto in banca dei miei genitori. Ho sempre avuto un solo regalo, qualcosa che veniva scelto per la sua qualità o perché sarebbe durato a lungo: una catenina con delle perline di cristallo, un orologio d'oro con quattro piccoli brillanti, un baule di cedro per il corredo da sposa.

 

Per quasi ogni Natale e Pasqua della mia infanzia, fu una consuetudine l'acquisto di abiti per l'occasione, da indossare in chiesa. Doveva essere tutto nuovo: slip, canottiera, sottoveste e vestito; nuove scarpe per la Domenica, calzetti, il fiocco per i capelli in tinta con il vestito. Quando veniva acquistato uno di questi pezzi la mamma mi diceva "Mettilo nell'armadio e tienilo da parte per Natale". La vigilia della festa facevo il bagno prima di andare a letto, dormivo tra lenzuola pulite e la mattina indossavo tutti quegli indumenti speciali che avevo conservato per quel giorno e mi sentivo orgogliosa di mostrare gli abiti delle grandi occasioni. Andavo alla messa delle nove e mezzo con la mia vicina Mary. Papà scendeva a piedi tutta la collina, fino ad arrivare alla pasticceria, poi al negozio di gastronomia dove le persone stavano in fila davanti al bancone per acquistare l'affettato per l'antipasto e il pane fresco. Al suo ritorno, la mamma aveva già fatto la pasta. Sulla tavola di legno che utilizzava appositamente per questa preparazione, aveva adagiato lunghe strisce di pasta gialla con sopra un velo di farina poi coperte da un telo bianco. "Vieni a casa Lorraine" mi richiamava la mamma quando ancora ero sul marciapiede così io filavo dentro e, istintivamente, indossavo il grembiule (ne avevo uno che la mamma aveva cucito proprio della mia misura). Lei e papà avevano già allungato al massimo il tavolo della sala da pranzo e steso la tovaglia. "Ecco il sale e il pepe, mettili in tavola", "Spolvera le sedute delle sedie della sala da pranzo", "Asciuga questi piatti". Potevano esserci otto, dieci o al massimo dodici persone: non di più perché anche con tre famiglie non si sarebbe superato quel numero: nessuno dei nostri amici aveva più di due figli. Il pasto principale iniziava intorno a mezzogiorno e mezzo o l'una.

 

Quando arrivavano gli ospiti le donne andavano difilato in cucina ad aiutare la mamma. Se c'era bel tempo, gli uomini aspettavano fuori casa, altrimenti stavano nel seminterrato a chiacchierare con i vicini, tutti lontano dalle cucine e dalle sale da pranzo per non intralciare. Rientravano in casa solo quando venivano chiamati a tavola. I bambini trovavano sempre qualcosa da fare e non disturbavano gli adulti, soprattutto le mamme. Alla fine ci si sedeva tutti insieme a tavola per iniziare con l'antipasto, ovvero i piatti freddi: prosciutto, mortadella, galantina, salame, olive verdi e quelle nere avvizzite, acciughe sott'olio, sottaceti e funghi marinati. Sparsi qua e là per tutta la tavola c'erano mucchietti di pane croccante, bottiglie d'acqua e di vino rosso proveniente dalle botti della cantina. "Non esagerate con gli antipasti, altrimenti non vi rimarrà spazio per il resto" ricordavano a noi bambini. Sapevamo bene che il pasto sarebbe proseguito per un paio d'ore ma, per fortuna, noi non eravamo costretti a prendervi parte interamente. Le donne non riuscivano mai a stare sedute tranquille, si preoccupavano di liberare il tavolo affinché i commensali, non solo noi bambini, non si saziassero con quella prima portata. Mentre la mamma immergeva la pasta nell'acqua bollente e ne controllava il perfetto grado di cottura, i piatti venivano rapidamente lavati e asciugati. Erano trascorsi solo dieci minuti dal momento in cui ci eravamo messi a messi a girovagare per casa ma ci sedevamo tutti quanti appena la mamma arrivava con il piatto di pasta fumante, coperta da quel sugo ricco e di un rosso quasi marroncino per aver bollito tutta la mattina.

 

Questa portata veniva gustata con più tranquillità e riusciva a placare gli appetiti famelici. Gli adulti parlavano o si raccontavano storielle divertenti sui personaggi più caratteristici del paese d'origine in Italia. "Ricordate quell'idiota di Pasqualon. Sua moglie gli ha detto di cuocere un po' di fagioli e lui ne ha messi sei nella pentola e di tanto in tanto ne provava uno per sentire se fossero cotti e quando furono pronti, assaggia assaggia, non ne era rimasto più nessuno". Raccontarono aneddoti come questo pensando che il protagonista fosse una persona reale, ma il "mitico idiota" sembra fosse vissuto in più di un paese perché tutti lo conoscevano e lo deridevano. Il piatto da portata con la pasta veniva lasciato sul tavolo affinché tutti si potessero servire due o tre volte; poi il pasto s'interrompeva per una lunga pausa, e anche il lavoro delle donne volto a liberare il tavolo e a lavare i piatti per dare spazio ai secondi e ai contorni, veniva svolto con maggiore calma. A quel punto i bambini avevano finito il loro pasto mentre gli adulti (più esperti e pazienti durante le lunghe permanenze a tavola nei giorni di festa) continuavano a mangiare, non fosse altro che per assaggiare ogni pietanza: pollo arrosto, vitello alla cacciatora (con olive nere), funghi, cavolfiori, cuori di carciofo immersi nella pastella e fritti; e per concludere insalata che aiutava la digestione. Finalmente tutti si alzavano da tavola. Le donne mettevano via il cibo e rassettavano, gli uomini facevano un giretto fuori mentre i bambini giocavano tranquilli in casa o andavano fuori con i vicini. Ci si riuniva tutti solo nel tardo pomeriggio per il caffé e i dolci: paste, pasticcini e torrone. La prima parte della serata si trascorreva insieme, poi quando se ne andavano tutti sentivo che il Natale era finito e ciò mi rattristava ma sapevo anche che presto avremmo di nuovo condiviso momenti simili, in occasione della prossima ricorrenza, a casa di qualcun altro.

 

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