Il picnic della domenica
 

Da giugno a settembre, nelle estati della mia giovinezza, quelle degli anni Trenta e Quaranta, i miei genitori conoscevano un luogo in cui quasi ogni domenica venivano organizzati dei picnic, era un posto non lontano dalla città. Le scampagnate furono meno frequenti durante gli anni della guerra ma non appena finì, ricominciarono con la stessa cadenza e a questi incontri tradizionali della domenica parteciparono anche i soldati tornati dal fronte con le loro fidanzate e le neospose. Ogni picnic era organizzato da una delle associazioni italiane di San Francisco (club, sindacati, società tra i quali, i più famosi erano quelli coordinati da I Figli dell'Italia e dalla Federazione Cattolica Italiana) oppure semplicemente da gruppi regionali o di qualche città italiana: piemontesi, i lucchesi, i marchigiani. C'erano numerosi parchi nelle contee di Marin e San Francisco, ma i miei genitori e i loro amici prediligevano Portola Valley, in particolare il Rossotti's Creek Park in Alpine Road e l'adiacente Portola Park, di proprietà della famiglia Mangini. Non vedevamo l'ora che arrivassero queste periodiche fughe fuori città. Ci mettevamo in macchina la mattina presto, dopo aver caricato l'auto di cibi e di utensili sufficienti per due o tre pasti. Arrivavamo al parco tra le 9 e le 10, pagavamo un ingresso di cinquanta centesimi per l'auto poi, appena entrati, cercavamo gli amici con i quali avevamo appuntamento.

 

I gesti che seguivano erano sempre gli stessi: la scelta del tavolo e del barbecue che sarebbero stati nostri per l'intera giornata. I bambini iniziavano con una merenda a base di pane francese con insalata di tonno o affettati, le donne allestivano le loro cucine all'aria aperta, gli uomini accendevano il fuoco per cuocere il pranzo. A volte si concordava prima l'acquisto di mezzo agnello o un pezzo di maiale da arrostire così lo si portava già condito in un contenitore, oppure ogni famiglia portava la propria carne e il resto veniva sempre condiviso: la pasta che si faceva bollire sul fuoco acceso dagli uomini, la focaccia e il pane, la frutta, il vino, i dolci fatti in casa. Se gli spazi attorno al nostro tavolino erano occupati da persone che conoscevamo, ci si scambiava assaggi. Dopo pranzo, insieme si rassettava lo spazio utilizzato e i bambini passavano il tempo spendendo i propri soldini in bibite, gelati o in giochi. Il gioco che ricordo meglio era il tiro al salame in cui ai partecipanti venivano date delle patate da lanciare contro una mezza dozzina di salami appesi a degli spaghi. I vincitori avevano diritto ad un salame mentre a chi perdeva non restava che lamentarsi per aver tagliato le patate in pezzi troppo piccoli da non riuscire a centrate il bersaglio. Nel pomeriggio i bambini facevano anche la corsa coi sacchi e alcuni si dedicavano alle bocce o al lancio del ferro di cavallo; quelli meno avvezzi all'attività fisica, stavano seduti a divertirsi con le carte o con chiassosi passatempi come la morrà.

 

In questo gioco, due uomini mostravano contemporaneamente una mano indicando con le dita un numero qualsiasi e nello stesso istante annunciando a gran voce quello che prevedevano sarebbe stato il risultato finale, ovvero il numero totale delle dita esibite dai due giocatori, sempre attorniati e osservati da numerosi spettatori e da chi attendeva il proprio turno. Da bambina non capivo perché si divertissero e come si determinasse il vincitore. Le donne passeggiavano nel parco tenendo d'occhio i propri figli e fermandosi a chiacchierare presso i tavoli dei conoscenti che incontravano lungo il percorso, solitamente colleghi di lavoro o vicini di casa. Nel primo pomeriggio si aprivano le danze e da adolescente questo si trasformò per me nel momento più bello della giornata. La pista da ballo era una pedana di legno con intorno uno steccato e delle panchine. C'erano delle querce a proteggerla dal sole e la musica si diffondeva per tutto il parco. Se suonavano canzoni americane famose, sognavo che un ragazzo mi chiedesse di ballare malgrado non ne fossi ancora capace. Quando suonavano la musica popolare italiana, e lo facevano spesso, io andavo a cercare mio padre e gli chiedevo di ballare con me un valzer, la polca i la mazurca. A lui non piaceva tanto ma mi accontentava sempre. Aveva un buon senso del ritmo ma muoveva le gambe in modo rigido e controllato, non come chi sente la musica e si lascia trasportare.

 

Man mano che crebbi, mi tenne sempre più a distanza, come se la mia femminilità potesse mutare il modo in cui mi toccava: sembrava imbarazzato dai cambiamenti del mio corpo. Nel tardo pomeriggio i musicisti se ne andavano e allora terminavano anche tutte le altre iniziative e i passatempi pomeridiani: era il segnale che era arrivata Fora di raggiungere i propri familiari rimasti ai tavoli, per cenare tutti insieme. Era Torà in cui si ridistribuivano gli avanzi del pranzo e ci si rendeva conto che la giornata stava per terminare. D'un tratto iniziava un canto da uno dei tavoli per poi diffondersi in numerosi cori; le canzoni erano quelle della tradizione popolare italiana che tutti conoscevano Quel Mazzolin di Fiori, Piemontesina Bella, Stella Alpina. A volte i vari cori si sfidavano in una competizione amichevole per la scelta di quello che sarebbe stato il motivo da cantare successivamente. Il canto scemava solo al tramonto, quando tutti cominciavano a prepararsi per il viaggio di rientro in città e le auto si mettevano in fila lungo la Alpine Road.

 

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